Il prof tedesco Hans-Werner Sinn spiega come l’unica speranza stia in più produttività e sacrifici
Da alcuni mesi, Hans-Werner Sinn – professore di economia all’Università di Monaco e presidente del prestigioso Ifo-Leibniz Institute di ricerca economica – è protagonista di un dibattito furioso contro George Soros sulle pagine di Project Syndicate, tanto da meritare una sezione apposita.
Soros vorrebbe la mutualizzazione del debito europeo, altrimenti «sarebbe meglio se la Germania lasciasse l’eurozona». Sinn fa notare che i trattati escludono un mezzo simile: dovrebbe essere adottato per referendum – e ricorda che di tedeschi favorevoli all’idea ce ne sarebbero ben pochi. Spesso si cita il fatto che la mutualizzazione del debito americano a opera di Alexander Hamilton avrebbe «creato gli Stati Uniti» – ma Sinn ha replicato che la mossa portò solamente a una nuova bolla di debito, perché gli Stati ripresero a indebitarsi. Per Sinn, il vero problema sarebbe la competitività del Sud.
Professor Sinn, nella sua presentazione in apertura del Munich Economic Summit ha dichiarato che le tre soluzioni principali per la crisi dell’euro non possono funzionare singolarmente. L’Austerity e i tagli di bilancio portano disoccupazione di massa; maggiore inflazione significherebbe aumento dei prezzi in Germania del 5,5% l’anno, arrivando al 70% in dieci anni; e che l’uscita temporanea di Stati membri getterebbe i mercati nel panico. Sembra che non ci sia modo di evitare sacrifici. Nessuna delle soluzioni, però, sembra in grado di stimolare la domanda nel Sud Europa.
Ci sono due modi principali per stimolare la domanda. Il primo è “artificiale”, attraverso la spesa pubblica, ma alla fine ciò aggraverebbe solo il problema del debito pubblico, e ridurrebbe la domanda nel lungo termine. In termini netti, non è possibile aumentare la domanda attraverso misure keynesiane. Inoltre tale domanda impedirebbe all’inflazione di scendere, che è necessario per riguadagnare competitività. L’altro modo è quello “naturale”, che dipenderebbe dal contenimento del costo del lavoro. Dieci anni fa la Germania aveva una situazione simile all’Italia di oggi: era troppo cara e ha dovuto tagliare i prezzi reali. Ciò significa che l’incremento dei salari è dovuto essere inferiore all’aumento della produttività per un certo numero di anni.
Cosa ha fatto la Germania per contenere il costo del lavoro?
La Germania ha liberalizzato il mercato del lavoro, con orari più lunghi e flessibili, e in particolare ha ridotto i contributi di disoccupazione, così che alla fine l’incremento dei salari è stato ridotto. I salari sono aumentati molto poco in particolare per i lavoratori a bassa specializzazione. Ciò ha stimolato la domanda per i loro servizi e ha generato un “job market miracle”. Si noti che se tale misura è intrapresa solo da un settore, è un sacrificio; ma se tutti lo fanno, il sacrificio è limitato, perché tutti i prezzi calano. Inoltre, la domanda estera per i prodotti nazionali aumenta – ed è ciò di cui ha bisogno l’Italia.
C’è chi sostiene che riformare l’Italia sul modello tedesco renderebbe l’Italia più competitiva a spese della Germania. Sembra cioè che nell’area euro ci sia posto per un solo vincitore.
No. La Germania ha sviluppato un surplus commerciale [esportazioni maggiori delle importazioni, ndr] e certamente sarebbe stato meglio stimolare la domanda domestica e l’investimento, piuttosto che far tutto tramite le esportazioni. Ma se l’Italia diventa più competitiva, aiuterebbe la Germania, perché i prodotti italiani diventerebbero più convenienti per i tedeschi – compensando la possibile diminuzione di esportazioni tedesche dovuta alla ritrovata competitività internazionale dell’Italia.
Alcuni anni fa Alberto Alesina ha sostenuto che per far funzionare un’unione monetaria serve anche forte mobilità dei lavoratori, in modo da riequilibrare aree in crisi e in sviluppo – è per questo che il dollaro funziona. Però un texano che si trasferisce in California per fuggire da una crisi si ambienta subito, mentre uno manager spagnolo che trasloca a Francoforte ha bisogno di dieci anni per integrarsi, tra lingua e tutto. Non è un limite insormontabile?
Questo è l’argomento “Mundelliano”, e io non sono d’accordo con esso. Perché un’unione monetaria funzioni c’è bisogno solamente di flessibilità dei prezzi, verso l’alto e verso il basso, e i costi del lavoro sono parte di essa. Questo è tutto. Peraltro, se la gente abbandona le regioni super-indebitate, il debito pro capite diventa ancora più grande.
Però sembra che l’austerity non consenta le riforme di cui l’Italia ha bisogno, perché le riforme hanno un costo sociale da pagare in contributi e sussidi. L’esempio tedesco del 2004 sembrerebbe dimostrare che il deficit spending sia necessario per riformare, visto che la Germania è incorsa in deficit alti per molti anni.
Idealmente sarebbe meglio introdurre riforme quando ancora si ha la possibilità di indebitarsi. In pratica, però, le riforme si fanno solo con l’austerity. In Italia, nell’estate del 2011, il premier Berlusconi ha annunciato tagli di bilancio, perché lo spread era aumentato: i mercati hanno richiesto austerity. Anche in Germania nel 2004, il governo socialdemocratico di Gerhard Schröder ha riformato non a causa di particolare acume, ma a causa della forte pressione dei mercati. I capitali stavano fuggendo dalla Germania, c’era disoccupazione in aumento, e il governo ha fatto riforme per pura disperazione.
Forse i tedeschi reagiscono alle riforme meglio di italiani e spagnoli?
Le riforme in Germania non sono state popolari e sono costate il posto a Schröder. L’elettorato tedesco ha avuto bisogno di dieci anni per comprendere le riforme. Ma poi è stato innegabile che abbiano funzionato, e non lo può negare neanche il più estremo ideologo di sinistra. L’Italia ha bisogno delle riforme di Monti. Liberalizzare il mercato del lavoro, in particolare creandone uno più flessibile, sarebbe utile – specialmente liberandosi del modello “insider-outsider” – che danneggia soprattutto i giovani.
Ma come introdurre politicamente queste riforme in Italia? Il partito di Monti – che lei ha citato – alle ultime elezioni in febbraio ha preso l’8,3% dei voti.
L’elettorato raramente comprende la necessità di riforme. Anche in Germania gli elettori dieci anni fa non le hanno capite, ma il governo è andato avanti e adesso i cittadini ne possono trarre benefici. La soluzione può essere solo l’austerity: non c’è dubbio che funzioni, ma la sola domanda è quanto possa essere dolorosa.
Posto che le riforme sono necessarie a ogni modo, pensa che un ritorno alla lira possa essere un’opzione da considerare per l’Italia? E forse anche un ritorno greco alla dracma?
Non penso che i problemi dell’Italia siano così profondi da dover uscire dall’eurozona. Secondo uno studio di Goldman Sachs, l’Italia avrebbe bisogno di una diminuzione dei prezzi di un mero 10% - mentre la Grecia avrebbe bisogno di un taglio del 30%. L’Italia non ha problemi fondamentali: è solo un po’ troppo cara. Così, nel caso greco non riesco ragionevolmente a pensare a una soluzione, mentre per l’Italia posso. Dopo le riforme, un paio d’anni di stagnazione e inflazione bassa sarebbero sufficienti per rendere il Paese più competitivo.